02 maggio 2022

La storia di Sergio, nato due volte

Legami di Sangue

Sergio Cattaneo è nato la prima volta a Cantù, l’11 gennaio del 1961, e la seconda volta all’Ospedale Niguarda di Milano, il 24 aprile del 2021. La sua malattia è stata scoperta il 20 ottobre del 2019, quando, dopo un malore avvenuto al lavoro, è stato portato al pronto soccorso di Monza e immediatamente ricoverato.
Sergio racconta, a partire da quel 20 ottobre 2019…

“Mi sono stati riscontrati un tumore al fegato e una cirrosi epatica. La situazione, a quel punto, è apparsa davvero tragica.
Prima di continuare, però, vorrei fare un passo indietro e ripercorrere con voi un periodo della mia vita, per lanciare un messaggio: abbiate rispetto per la vita e per il vostro corpo. Durante la mia vita, ho fatto scelte sbagliate, che mi hanno portato a fare uso di droghe. Erano gli anni ‘80, la contestazione giovanile che portava avanti valori importanti viene spazzata via dal mondo degli stupefacenti ed è stato lì che io, insieme a molti altri giovani, ci siamo persi. Io ho avuto la forza di uscirne pienamente, creandomi una nuova vita, ma il mio corpo, dopo 40 anni, una famiglia e dei figli, mi ha presentato il conto da pagare.
È il 20 ottobre 2019. Ho un tumore al fegato e una cirrosi epatica. Non è stato facile, avevo fatto una cura anni prima, tra l’altro dolorosa, ma questa ha solo rallentato l’aggravarsi della malattia e purtroppo, durante tutti questi anni, non ho mai ricevuto segnali d’allarme.
Dopo la scoperta del tumore, vengo messo in contatto con l’Ospedale Niguarda di Milano. Durante il primo consulto mi viene subito chiarito che l’unica salvezza, per me, sarebbe stata il trapianto. In quel momento, ciò che ho provato è stato sicuramente paura e tutte le certezze, che prima avevo, sono crollate come castelli di sabbia. Questa notizia la ricevo insieme a mia moglie e la sensazione è terribile, perché, sposati da tre anni, stiamo attraversando un periodo felice della nostra vita, abbiamo tanti progetti, e la malattia ci blocca. Io non riesco più a pensare al futuro, ho bisogno di vivere l’istante.
Alternative non ce ne sono, per cui, insieme, decidiamo di dire di sì al trapianto. 
Così, all’Ospedale Niguarda prima mi viene asportato il tumore, poi, fatti tutti gli esami per verificare la mia idoneità al trapianto, sono inserito nella lista di attesa. Siamo tranquilli, fino a quando si presenta un’infezione successiva all’asportazione del tumore che mi riporta in sala operatoria e, successivamente, in terapia intensiva.
Vengo preso per i capelli. I dottori parlano con Alida, mia moglie, dicendole che potrei non farcela. Il chirurgo, dopo l’intervento, le spiega di non aver mai visto una situazione del genere in un paziente. L’infezione aveva toccato tutti gli organi addominali e io mi trovo su una montagna: dipende solo da me scegliere da quale lato scendere, quello della vita o quello della morte.
In terapia intensiva rimango per una settimana in coma farmacologico, poi lentamente mi risvegliano. In reparto trascorro più di un mese allettato e nutrito dalle flebo: sono uno scheletro di 40 kg che era entrato in ospedale con un peso di 82 kg.
Questo è stato il periodo peggiore, in cui cercavo di sopravvivere e in cui la paura di non farcela era sempre con me. La forza di lottare ancora non c’era, per cui è stato fondamentale il sostegno di mia moglie e dei miei figli, che mi hanno aiutato e incoraggiato.
Ormai, date le condizioni, al momento il trapianto non è più fattibile. A poco a poco mi vengono rimossi tubi e flebo, comincio a mangiare sostanze liquide, ma non riesco ancora ad alzarmi. Mi chiedo se sarei mai più sceso dal letto. Un giorno si presenta in camera una signora dell’ATS a dirmi che avrò bisogno di un girello e di una carrozzina, perché non sarei stato più in grado di camminare. È in questo momento che qualcosa in me scatta: non voglio finire in carrozzina, la rifiuto e chiamo i dottori. Chiedo l’aiuto di un fisioterapista, perché devo tornare a camminare. Le cure del fisioterapista, però, non bastano. In ogni occasione cerco di alzarmi e con il sostegno di Alida comincio a camminare per il corridoio. È stata dura, sembravo un bambino che imparava a camminare per la prima volta, ma alla fine ce l’ho fatta.
Dopo due mesi, torno a casa e comincio ad attendere la chiamata per il trapianto. Un’attesa che significa non poter pensare di organizzare viaggi o altro, ma vivere giorno per giorno, senza poter andare in ferie, neppure per un fine settimana, perché non si sa quando l’ospedale chiamerà e, quando lo farà, si dovrà essere lì nel giro di un’ora.
I mesi e gli anni passano, ricchi di sconforto. Sopravvivo, non vivo. Ma ho fiducia nella medicina. Più il tempo passa, più la paura cresce, perché in questi due anni di attesa vengo chiamato ben quattro volte, in tutti e quattro i casi senza esito positivo: il fegato non era compatibile o, dopo un’analisi più approfondita, il fegato del donatore non era sano. Gli episodi di malessere si susseguono, il mio corpo diventa sempre più debole e ogni giorno che passa risponde sempre meno agli stimoli. Ho paura, e a casa la sentono tutti, ma grazie alla vicinanza e all’amore della mia famiglia riesco a reagire.
È il 23 aprile del 2021, mi chiamano: c’è un fegato pronto per me. Non so per quale motivo, ma sento che questa è la volta decisiva. Alida guida verso l’Ospedale Niguarda in silenzio, sappiamo entrambi che forse è la volta buona, la mia possibilità di rinascita. Al pronto soccorso mi aspettano, faccio i soliti esami e vengo portato in reparto. C’è il Covid e Alida non può entrare. Ci salutiamo e la porta del reparto si chiude. Non so ancora che quel momento rappresenta la fine di un percorso e l’inizio di un altro, in cui mi sarei lasciato alle spalle la mia vecchia vita. Alida resta fuori ad aspettare, ma un’infermiera la convince ad andare a casa, perché il fegato è a Modena, l’equipe di espianto è andata a recuperarlo e arriverà solo la mattina successiva. Avrebbe fatto in tempo a rivedermi prima del trapianto.
Sono le 23.30, mi preparano per l’intervento, rimango solo in camera e la mia vita scorre attraverso i miei pensieri. Ho tanta paura, ma sono sicuro che questa sia l’unica scelta possibile per rivivere. Il tempo passa lentamente, sento trambusto in corridoio e penso: “Stanno arrivando”. Chiamo Alida, sono le 5.40 del mattino e mi stanno portando in sala operatoria. L’ultimo ricordo che ho è quello di me stesso, legato sul lettino, gambe e braccia a croce. Ho freddo, mi portano la coperta termica e un tubo con aria calda, mi attaccano di tutto e alla parete vedo un orologio: sono le 6 del mattino e alla radio passa il boss, Bruce Springsteen.
Dieci ore dopo mi trovo in terapia intensiva. È il 25 aprile quando mi sveglio, inizia la mia nuova vita. Ho pochi ricordi di quei giorni perché sono rimasto sedato, poi, dopo cinque giorni in terapia intensiva, torno in reparto. A poco a poco acquisisco consapevolezza riguardo a ciò che è successo: per me è iniziata una vita nuova. Sono pervaso da sensazioni di gioia e felicità, ricordo che i primi giorni piango, pianti di gioia e gratitudine. Ogni giorno che passa sento in me la presenza di un’altra persona, sempre di più. Sento la presenza di questo mio amico che il destino ha voluto incrociassi sul mio cammino. Con un semplice sì, con un semplice gesto d’amore, questa persona ha permesso a me di vivere e a sé stesso di rivivere in me.
Il donatore è anonimo, so solo che il fegato è stato prelevato a Modena, la legge non permette di sapere altro. Ai familiari dei donatori l’ospedale comunica quali organi sono stati prelevati e ringrazia la famiglia. A noi non è concesso sapere nulla, ma non serve. Io so che questa persona ha fatto una scelta d’amore che non dimenticherò mai.
Questa presenza la sento tutt’oggi. Ogni giorno la ringrazio, anche se non ci conosciamo. Mi ha donato una parte importante del suo corpo che mi ha fatto rinascere e ora mi accompagna tutti i giorni nel mio quotidiano.
Dopo un mese dal trapianto, ritorno a casa. Si fa sempre più viva in me la voglia di restituire il dono ricevuto: non potrei certo girare le spalle e pensare solo a ciò che ho avuto io in dono. Ne parlo con Alida, i nostri figli e gli amici e, insieme, decidiamo di fondare il Gruppo A.I.D.O. – Città di Cantù, per diffondere il messaggio. Non avrei potuto rimanere in silenzio, la mia voce da quel momento l’avrei usata per parlare di trapianti e dono, di vita e miracoli della medicina.
Il nostro pensiero è rivolto a quelle persone che ora stanno vivendo il percorso dell’attesa, che non sanno se ci potrà essere un domani per loro e le loro famiglie, per le 8.000 persone che, attualmente, in Italia aspettano un organo.
Tutti noi abbiamo la possibilità di ridare la vita ad una persona, rivivere ancora nel mondo donandoci.
Il nostro compito è diventato far conoscere A.I.D.O. (Associazione Italiana Donatori Organi, tessuti e cellule), far comprendere il grande valore della vita, del dono e della speranza per coloro che, di speranza, non ne hanno più. Il nostro Gruppo A.I.D.O. – Città di Cantù nasce il 19 ottobre 2021. La sua finalità è quella di promuovere, in base al principio della solidarietà sociale, la cultura della donazione di organi, tessuti e cellule. Vogliamo far conoscere gli stili di vita atti a prevenire l’insorgere di patologie che possono richiedere, come terapia, il trapianto di organi e provvedere, per quanto di nostra competenza, alla raccolta di dichiarazioni di volontà favorevoli alla donazione di organi, tessuti e cellule post mortem.
Basta un semplice sì!”

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